domenica 15 gennaio 2012

Quello che si dovrebbe chiedere alla scuola

da ReteScuole

Quello che si dovrebbe chiedere alla scuola 

inviata da anna fassel (http://icdo-nogelmini.blogspot.com/)

«È ancora possibile che il corpo sano della società riscopra un'energia corale che ci consenta di liberarci dalla rassegnazione e dall'indifferenza, di ridare spazio all'impegno e alla speranza?». Così si conclude il libro L'Italia dell'ignoranza. Crisi della scuola e declino del Paese di Graziella Priulla (Franco Angeli, pp. 207, euro 24), insegnante di lungo corso e che oggi è docente di Sociologia dei processi culturali all'Università di Catania. Un testo denso e ricco di pregi, specie su una materia così tormentata come quella presa in esame. Anzitutto la passione, che desumiamo anche da queste righe finali, la passione di chi crede fermamente nell'importanza della cultura e della scuola, l'«ultimo luogo che si ostina a non produrre consenso». Un secondo merito è costituito dall'esame, condotto con meticolosa e impietosa acribia, degli innumerevoli problemi che attanagliano questa istituzione, problemi che a loro volta pesano su quella che appare una dilagante tendenza all'ignoranza e alla mancanza di spirito critico nelle giovani generazioni contemporanee.
Priulla legge, con dovizia di dati e statistiche, la progressiva deriva verso il peggio del sistema scolastico in Italia senza tuttavia dimenticarsi (e questo è lodevole) di proiettare tale degrado sullo sfondo dei mutamenti culturali (e antropologici) dell'epoca. Da una parte esibisce prove e racconta aneddoti di vita scolastica sulla erosione delle capacità cognitive e in particolare linguistiche dei più giovani. Dall'altra presenta in modo chiaro e netto il progressivo abbandono della scuola e dell'investimento culturale in un quadro economico-sociale che sembra orientato a promuovere soltanto l'asservimento alle leggi del mercato. E ancora evidenzia le profonde trasformazioni di un contesto dove internet, la televisione, i videogiochi, la comunicazione sociale nel suo complesso, incidono in maniera decisiva.
Si tratta di una diagnosi indiscutibile che colpisce anche per la consapevolezza che si tratta di qualcosa dove non solo la politica o l'economia dell'ultimo ventennio appaiono responsabili, ma molto e significativamente anche i maldestri tentativi di riforma pedagogica, di innovazione, di risanamento proposti e talvolta prodotti da politici ma soprattutto «esperti» del settore con un velleitarismo che imbarazza, divaricandosi tra insistenza sull'esercizio di improbabili metodi di studio, effervescenza immoderata per la riscoperta delle competenze misurabili e la retorica di un'individualizzazione che cozza contro tutti i provvedimenti di immiserimento e privazione che sistematicamente da tempo affliggono il contesto scolastico. Il tutto in assenza di domande fondamentali che evidentemente non possono arrestarsi all'avvilente interrogativo sul primato di competenze o conoscenze.
Nelle ultime pagine del libro l'autrice giunge non casualmente a mostrare come la scuola si trovi sulla soglia della sua totale dissoluzione, proprio in quanto esautorata, svuotata, incomprensibile: «il destino più triste che le possa capitare è sprofondare nell'invisibile». Una scuola che non riesce (ma vi è mai riuscita?) a mobilitare «la curiosità» degli adolescenti e neppure a presentarsi come luogo di «movimentazione delle idee», ma che continua soprattutto ad apparire lo spazio di imposizione di nozioni e formule «pronunciati da adulti poco autorevoli». Una scuola che non riscuote più il rispetto di allievi e famiglie(posto che in passato davvero si trattasse di rispetto o, forse, di semplice disciplinamento, occorrerebbe forse dire), e che non è più un oggetto di investimento per lo stato, benché molte retoriche continuino ad esercitarvisi sterilmente, specie quelle politiche.
Ben consapevole dei mutamenti irreversibili dei comportamenti e delle esperienze dei bambini e dei giovani, della necessità di elaborare le domande nuove di chi non maneggia più penna e calamaio ma social network e touch screen, l'autrice vede la necessità di fare i conti con esse, sottolineando la necessità di sottoporle a un trattamento critico-riflessivo, e tuttavia forse non assume fino in fondo quell'iconic turn, e cioè l'avvento di un'era in cui domina la cultura visuale su quella linguistica, che da almeno due decenni è un dato conclamato e più che studiato.
Priulla sa bene che non basta fare entrare le tecnologie nella scuola (posto che qualcuno lo voglia davvero, e lo voglia finanziare) e sperimentare un apprendimento di natura reticolare e caotica, più di «avventura» che di ricerca (il che comunque non pare necessariamente un male), che occorre porsi delle domande rispetto ai diversi modi di comunicare, di apprendere, ma soprattutto di fare esperienza delle generazioni «digitali», molto più segnate dal codice analogico che da quello logico, come lo definisce l'autrice quando si chiede quale mescolanza dell'uno e dell'altro occorrerebbe apprestare per uscire dal guado.
E tuttavia la domanda che occorrerebbe porsi, oltre tutto questo, e che in qualche modo traspare nella veemenza interrogante delle ultime pagine, come mancante nel dibattito attuale, è una domanda profonda sul senso stesso, forse strutturale, dell'esperienza scolastica, sulla necessaria rifondazione di un campo d'esperienza da cui ancora e sempre restano emarginati il corpo, la creatività, l'immaginazione, la manualità, l'eros, mondi vitali e ambiti di esercizio di un'integralità del soggetto che la scuola continua a eludere, con la sua centratura cognitiva e strumentale. E questo lascia libero il campo a chi da un lato ne vuole fare una propedeutica aziendale, puntando solo sulle competenze d'uso e riducendo lo spettro dei saperi a quelli meramente redditizi, e a chi, dall'altro, avalla il suo divenire sempre più obsoleta.
La scuola indubbiamente deve essere ripensata globalmente, forse dissolta e ridisegnata, sullo sfondo di mutamenti epocali e irreversibili, e infine probabilmente riproposta come elemento non svendibile di una civiltà che faccia nuovamente perno sulla sensibilità culturale. Ma per ottenere ciò, per risollevare «impegno e speranza», deve probabilmente interrogarsi non solo sul come restituire ai giovani una buona competenza linguistica - posto, e se ne hanno dei dubbi, che vi sia mai riuscita, almeno per i più - o una certa «riflessività» per non essere sommersi dalla rete, ma soprattutto sul riuscire a fare quello che mai è riuscita a fare: sviluppare curiosità culturale, appassionamento e coinvolgimento, piacere del conoscere ma anche dell'essere nel mondo. Tutte cose che nessuna svolta che resti sul piano della cognizione, per quanto strumentata, potrà mai assolvere. E men che mai in un orizzonte dove ormai (e chissà, finalmente?) l'immagine (e con essa il vecchio «demone dell'analogia»), appare il medium emergente.

(articolo di Paolo Mottana da il manifesto del 10 gen 2012)

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