E dopo l’Invalsi?
Non è vero che nel nostro Paese ci sia un’assenza di strumenti di valutazione: c’è l’assenza di una cultura della valutazione
di Marina Boscaino
Dunque, proviamo un po’ a ragionare a bocce ferme. Passata la buriana, passata la settimana calda dell’Invalsi a tutti i costi, a dispetto della normativa, a dispetto delle delibere, a dispetto di una legge ambigua e di ambigui comportamenti – specie da parte di alcuni dirigenti – che hanno artatamente bypassato alcuni ostacoli e un confronto democratico e civile con il proprio collegio.
Dobbiamo innanzitutto ringraziare la pletora di dirigenti scolastici – zelanti Yes women and men – che (incapaci di assumere posizioni che semplicemente transitino attraverso l’interpretazione della legge) si sono immediatamente messi sull’attenti, travalicando prerogative degli organi collegiali. Questo conto, mi auguro, saremo in grado di presentarlo, prima o poi. Altri, invece, si sono comportati diversamente: per tutti fa testo la lettera di Renata Puleo, una delle poche voci che si sono espresse senza riserve, in modo chiaro ed inequivocabile.
Gli insegnanti, infine, si sono divisi – al solito – in fasce coerenti con gli andamenti generali della/e mobilitazioni che hanno caratterizzato questi ultimi anni: gli ubbidienti, acritici esecutori dei diktat piovuti dall’alto; i riflessivi, coloro che hanno voluto tentare la prova, perché non convinti da un ostruzionismo non suffragato da una verifica empirica dei fatti; i disubbidienti (certamente tutti “comunisti” e Garagnani avrà il suo bel da fare) che – con motivazioni più o meno consapevoli, spesso determinatesi attraverso un confronto attento sul metodo e sul merito – hanno detto no alla “sperimentazione” di questa nuova strategia ministeriale, al solito a costo zero. Vale a dire sulle spalle degli insegnanti e degli studenti.
Le prove Invalsi imposte attraverso passaggi incerti e mai convincenti da parte di Gelmini (note, circolari, dichiarazioni, specie in merito ad una presunta obbligatorietà) sono state la rappresentazione più concreta dello stato di caos di cui questo ministero è in balia. E della grettezza con cui si continuano a perseguire obiettivi ignobili sotto forma di etichette apparentemente nobili: si dice semplificazione e razionalizzazione e si vuole intendere tagli sconsiderati, perpetrati a colpi di provvedimenti illegittimi e perseguiti nonostante sentenze inequivocabilmente contrarie. ll Tar del Lazio il 14 aprile ha dichiarato definitivamente l’illegittimità degli organici stabiliti con le circolari dello scorso anno e di 2 anni fa. Ma tutto tace e nessuno interviene.
Si dice valutazione, merito, premialità e si vogliono intendere scorciatoie calate senza alcuna preparazione (economica e culturale) e senza altre motivazioni che non siano finto-europeiste; di fatto tese a dimostrare che la scuola italiana fa schifo, gli apprendimenti degli alunni sono insufficienti, tutta colpa di quella banda di fannulloni sessantottini degli insegnanti. Altrove mi sono occupata di esprimere il mio pensiero sul merito dei test Invalsi.
Colgo invece l’atmosfera da quiete dopo la tempesta per riflettere su alcuni punti, che non mi sembra siano stati sufficientemente sottolineati durante questi mesi di dibattito.
1) In Italia, nonostante ciò che si vuole far credere, esistono da lungo tempo strumenti per determinare una valutazione pseudo-scientifica degli apprendimenti degli studenti di scuola superiore.
La prova dell’Esame di Stato, ad esempio, che ogni anno indica alcune situazioni più o meno patologiche del nostro sistema di istruzione, quelle sì strettamente correlate – a differenza dei test Invalsi – alle scelte epistemologiche della scuola italiana, alle metodologie didattiche, al pensiero critico, nonché alle abilità dei nostri diciannovenni.
Mi si obietterà che non si tratta di prove strutturate, dunque esse non sono valutabili in maniera inequivocabilmente univoca e oggettiva. Credo tuttavia che chi davvero abbia a cuore l’idea che valutare voglia dire individuare elementi che indichino in quale direzione orientare l’azione di governo della scuola possa fare qualcosa, di quell’immenso materiale prodotto ogni anno.
La prima prova rappresenta da questo punto di vista un paradigma essenziale. Si tratta di una prova costruita su misura per gli alunni del liceo, i più privilegiati. Analisi del testo letterario, tema storico, saggio breve (reiteratamente storico-letterario-artistico) rappresentano obiettivi affrontabili in maniera realmente dignitosa e consapevole solo per chi abbia conoscenze e tecniche di scrittura tali da approcciare modalità testuali così complesse.
La mia esperienza di docente di liceo classico e di commissario esterno o presidente all’esame di Stato mi suggerisce una riflessione. Lo scorso anno, da presidente presso un istituto professionale, su un totale di 43 alunni esaminati solo 1 ha tentato – con risultati insoddisfacenti – la prima tipologia, l’analisi del testo (Primo Levi); nessuno il saggio breve. Tutti si sono concentrati sulla tipologia-rifugio, il tema generale, peraltro affrontandola in maniera approssimativa e banalizzante, mettendo in luce incompetenze di scrittura persino clamorose per ragazzi di 19 anni. Non credo si tratti di un caso particolare, come ho sottolineato nella relazione che ho scritto all’Accedemia della Crusca, che aveva selezionato quella scuola come campione per evidenziare alcuni aspetti dell’approccio alla scrittura da parte dei maturandi.
Le seconde prove poi – latino, matematica, discipline di indirizzo, insomma – hanno caratteristiche tali da poter essere sottoposte a valutazioni più oggettive, nei limiti che questo aggettivo ha, riferito ad un concetto complesso quale, appunto, quello di valutazione.
Di tutto questo materiale non mi risulta si faccia gran conto nella determinazione di strategie di riflessione-correzione-mediazione rispetto ai profili di uscita potenziali degli alunni che si licenziano dalle superiori. Né sulle strategie didattiche, sulle metodologie, sulla relazione che li accompagnano fino a quella scadenza. Né sull’opportunità o meno di mantenere quei tipi di prove. Né su altri mille aspetti che se ne potrebbero dedurre.
C’è poi PISA (Programme for International Student Assessment), un’indagine internazionale promossa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). La finalità – accompagnata anche da alcune valutazioni che trovarono concretezza nella strategia di Lisbona – è quella di accertare se e in che misura i giovani quindicenni scolarizzati abbiano acquisito alcune competenze giudicate essenziali per svolgere un ruolo consapevole e attivo nella società e per continuare ad apprendere per tutta la vita (lifelong learning). Le materie sulle quali si svolge l’indagine sono la comprensione della lettura, della matematica e delle scienze.
Anche per Pisa, come per Invalsi, non sono i contenuti curricolari ad essere indagati, quanto la misura in cui gli studenti sono in grado di utilizzare competenze acquisite durante gli anni di scuola per affrontare e risolvere problemi e compiti che si incontrano nella vita quotidiana e per continuare ad apprendere.
Come dicevo, ogni ciclo dell’indagine approfondisce in particolare un’area: nel primo ciclo (PISA 2000) è stata la lettura, nel secondo ciclo dell’indagine (PISA 2003) è stata la matematica; nel terzo ciclo (PISA 2006) le competenze relative alle scienze e nel quarto ciclo (PISA 2009) la lettura. Pisa – oltre a far scrivere fiumi di inchiostro sui quotidiani, quando (scoprendo l’arcano) ci viene restituito puntualmente il mosaico del nostro sistema scolastico nazionale a velocità differentissime le une dalle altre (le prestazioni dei ragazzi di Bolzano sono collocabili al livello di quelle dei capacissimi studenti finlandesi, mentre catastrofiche appaiono le prestazioni in alcune zone del Sud) offrirebbe alcuni dati fondamentali per una riflessione costruttiva.
Uno dei benchmark della Strategia Lisbona 2010 (fallita, oggi Lisbona 2020) era proprio l’incremento delle capacità di lettura dei quindicenni scolarizzati. Questo dato – tra il 2000 e il 2008 – è catastroficamente peggiorato in tutta l’area UE. In Italia il peggioramento è stato più acuto che altrove: quelle competenze, tra il 2000 e il 2008, nella nostra scuola invece di migliorare sono peggiorate sensibilmente.
In conclusione: non è vero che nel nostro Paese, come spesso si scrive, ci sia un’assenza di strumenti di valutazione. Certamente c’è un’assenza di una cultura della valutazione che permetta di inserire quei dati in un contesto di elaborazione.
2) Ed ecco il punto. Valutare non rappresenta di per sé un valore assoluto. Dobbiamo interrogarci sul perché valutare oltre che, ovviamente, sul che cosa valutare, se si affida a questa azione una valenza significativa dal punto di vista culturale, operativo, economico in senso ampio e di pratica della democrazia. E non si desidera, invece – il dubbio è legittimo – adoperarla come prova della necessità di un bastone punitivo da agitare contro gli inadempienti responsabili della debacle. Perché – anche là dove di debacle si tratti – sono tutte da dimostrare le responsabilità oggettive.
In linea di massima il costume diffuso nei Paesi che da anni si sono occupati di studiare, elaborare, edificare un sistema di valutazione significativo dal punto di vista degli investimenti culturali, professionali ed economici è quello di determinare correzioni significative, miglioramenti, ottimizzazioni rispetto alla scuola valutata. Noi, almeno da una decina di anni, abbiamo a disposizioni dati, monitoraggi, esiti di indagini, test, esami. Non risulta che da questo potenziale patrimonio si siano tratte indicazioni dirimenti per orientare il sistema scolastico e le sue varie determinazioni in una direzione invece che in un’altra.
Piuttosto l’impressione è quella che – all’annuncio della “cura da cavallo” per la scuola, pronunciato nel 2008 dagli appena insediati Tremonti e Gelmini, seguito dalla riduzione di circa 130.000 posti di lavoro – il tema della valutazione e della premialità, del merito, abbiano sempre viaggiato solidarmente nelle dichiarazioni del ministro. In un improprio quanto provocatorio binomio, fondato – oltre che su svariate violazioni delle norme, come nel caso del recente tentativo di obbligare alla somministrazione dei test Invalsi – su una logica punitiva e non su una dimensione culturale costruttiva di identità, professionalità, competenze, capacità autovalutativa, rafforzamento del mandato costituzionale dell’insegnante e nobilitazione di esso.
3) Quello che si è tentato nel nostro Paese è stato il solito truffaldino colpo di mano: appropriarsi di un’idea e della gestione di quell’idea – in nome dell’Europa, talismano taumaturgico – a costo zero, millantandola come parte dell’ epocale riforma di cui ci hanno beneficiato. Millantandola come elemento necessario/obbligatorio di quel pasticciaccio che è – appunto – l’epocale riforma e le sue dilettantistiche soluzioni.
La nostra scuola è stata indebolita non solo dal punto di vista della decurtazione drastica di posti di docenza e di personale Ata, ma anche di finanziamenti ai singoli istituti. La convergente stretta delle borse ha avuto effetti significativi sull’offerta formativa, sulla dimensione del recupero e del potenziamento, sul diritto allo studio e agli apprendimenti. Non si è trattato – come hanno tentato di farci credere inizialmente – di una razionalizzazione delle spese, che andasse a insistere su degli sprechi conclamati, stornandoli per andare poi a sanare elementi di debolezza; ma di una falcidia trasversale e indiscriminata, che non ha risparmiato alcun settore, da quello della mediazione linguistico-culturale per i nuovi italiani, alla lotta alla dispersione, all’integrazione della diversabilità.
La scuola – come è abitudine, un po’ per inerzia, un po’ per un grande senso di responsabilità – ha continuato a funzionare, dando però ragione al ministro quando a più riprese ha sostenuto che i tagli (dei “bidelli”, che – lo ricordo – sono più dei carabinieri, sic!) e dei docenti erano giusti, perché le cose sono comunque andate avanti. È un po’ come la storia del “cornuto e mazziato”: che però, considerate le previsioni di contrazione ulteriore per il prossimo triennio, non potrà durare a lungo.
Nonostante i recenti elogi di Gelmini agli insegnanti del Sud (un barlume di saggezza le sta consigliando prudenza, anche dopo le innumerevoli, marchiane incursioni e attacchi del Capo agli insegnanti) non si può certamente credere che quei tagli, il conseguente impoverimento del tempo scuola del 10% spalmato sul segmento delle superiori, la rottura del modello del tempo pieno come storicamente e pedagogicamente esso si è determinato, la definitiva ghettizzazione dell’istituto professionale a un ruolo subalterno nel sistema dell’istruzione possano dare frutti positivi.
E, però, sono assolutamente disposta a scommettere che gli esiti Invalsi – o di quel po’ di Invalsi che saranno riusciti a racimolare – daranno anch’essi ragione al ministro, dimostrando che le competenze dei nostri quindicenni sono migliorate nell’ultimo triennio (vale a dire nell’epoca Gelmini): prova concreta e incoraggiamento alla politica di borseggio di risorse professionali e di educazione e cultura che coloro che ci governano non hanno minimamente intenzione di interrompere.
4) Gli annunci mediatici, tuttavia, possono accreditare successi e trionfalismi tra i più entusiasti (specie se si pensa che siamo nella patria dell’evocazione impudica dell’”epocale riforma”, per la quale, come fu per quella Moratti, è stato scomodato persino Gentile), ma non possono ignorare che per la prima volta da moltissimi anni a questa parte la scuola superiore ha avuto un significativo rigurgito di mobilitazione, consapevolezza e partecipazione nell’affrontare la questione.
Che la condivisione non sia nelle corde di questo ministro, abbiamo avuto modo di capirlo in diverse occasioni. È quasi surreale il fatto che, al no – parziale, parcellizzato, incerto, ma comunque “no” della scuola superiore – Gelmini abbia risposto a modo suo, nella olimpica autoreferenzialità ottusa nella quale vive da 3 anni a questa parte: dal prossimo anno test Invalsi anche all’esame di Stato. Alla faccia dell’”ascolto”!
5) La trasparenza, si sa, non è una prerogativa del nostro Paese, dove pronunciare parole – più o meno “magiche” – comporta la possibilità immediata di inverare i concetti che esse vanno ad individuare. Nelle tanto citate Inghilterra e Francia – in quest’ultimo Paese in particolare – mondo della scuola e società civile partecipano, intervenendo o comunque accedendo ai dati, alla rendicontazione annuale che si pubblica in quel Paese sulla base di 29 indicatori. Tutto alla luce del sole, tutto accessibile, tutto condiviso, in una delle rappresentazioni e delle interpretazioni che quel Paese dà della propria scuola repubblicana.
Come possiamo noi – improvvisati proseliti della valutazione, senza preparazione delle scuole, senza preparazione degli insegnanti, con una didattica improntata su epistemologie estranee a quei test, con tutte le riserve relative all’ambiguità attraverso la quale l’operazione è stata convogliata – tentare la valutazione di un sistema di cui sappiamo poco, data la nostra dilettantistica avversione alla creazione di archivi, banche dati, anagrafi, le cui evidenze aiutino prima di tutto a leggere la situazione in cui ci muoviamo, in cui operiamo, sulla quale dobbiamo, eventualmente, intervenire?
6) Infine un grato pensiero, ancora una volta, l’ennesima, per quelle case editrici – molte, moltissime – che, come è accaduto in tante occasioni nella storia delle pseudo-riforme, riformicchie, controriforme, programmi, indicazioni nazionali, bozze di indicazioni degli ultimi travagliati anni della scuola italiana, hanno in tempo di record fiutato la nuova frontiera del business, agguantando al volo la possibilità di sfornare – prima di qualsiasi atto formale definitivo – opuscoli, opuscoletti, suggerimenti, vademecum, consigli, eserciziari, breviari e chi più ne ha più ne metta – frutto della Invalsi-mania. Senza indugio la logica del profitto prevale, ancora una volta, su qualsiasi istanza culturale possa trovare ospitalità in un dibattito realmente trasparente e pluralista tra i nostri decisori politici, coloro che orientano il mercato e noi. Gli insegnanti.
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