del 30 maggio 2011
di Cinzia Gubbini
Domenico Chiesa è presidente del Forum regionale per l’educazione e la scuola del Piemonte, un’associazione che raccoglie le 13 più importanti associazioni professionali di insegnanti, dirigenti e scuole che operano in regione. Inoltre coordina il servizio della provincia di Torino “laboratorio del biennio”. L’ obiettivo è sostenere le scuole superiori nell’assolvimento dell’obbligo scolastico fino a 16 anni, e tra i settori di lavoro c’è quello del fornire strumenti per la documentazione, il monitoraggio e la valutazione degli interventi migliorativi messi in atto nella scuola superiore. E’ con lui che parliamo dei test Invalsi, quest’anno proposti anche nelle scuole superiori e che tante proteste hanno suscitato nel mondo della scuola. Un dibattito interessante quello che si sta sviluppando, macchiato però da chiusure, paure, ideologie contrapposte. La questione della valutazione, invece, è un elemento cruciale per rimettere in moto un processo positivo nella scuola italiana. Ma i limiti dei test Invalsi sono certamente molteplici, e Chiesa propone in questa intervista di aprire un dibattito e una riflessione approfondita su questi limiti proprio per cercare di avviare un ragionamento sulla valutazione scolastica.
Quali sono secondo lei i limiti principali dei test proposti dall’Invalsi?
A mio avviso il problema principale è che la valutazione non può mai essere slegata da uno scopo specifico. Se voglio valutare qualcosa devo sapere cosa voglio valutare e dotarmi degli strumenti coerenti. La valutazione, insomma, non può essere uno scopo in sé. Per questo motivo non può essere valutata indipendentemente dallo scopo.
E qual è lo scopo dei test Invalsi?
Questo è il problema: non è affatto chiaro. Nella scuola, infatti, esistono tre scopi per valutare e ognuno di questi ha una strumentazione e una procedura propri che sono coerenti con lo scopo prefissato.
Quali sono questi tre livelli?
Il primo livello è la valutazione dell’apprendimento degli studenti.
Esatto, direi che è questo lo scopo dei test Invalsi.
Ma allora non sono prove adatte a valutare queste competenze, né nei contenuti né nel metodo.
E perché?
Questo tipo di valutazione deve necessariamente essere interna al processo di insegnamento- apprendimento. Deve essere totalmente condivisa da studenti e insegnanti. L’insegnante, come professionista, è quello che organizza i tempi e i modi di questa valutazione, ma c’è un pieno coinvolgimento da parte dello studente che è interessato al suo apprendimento. E’ una scuola malata quella che fa della valutazione lo spauracchio o la ricerca della copiatura.
E’ chiaro che, a suo avviso, il metodo del test “calato dall’alto” è già inadeguato allo scopo della “misurazione” delle competenze dello studente. Ma vorrei capire più nello specifico perché ritiene le prove Invalsi inadatte anche nel contenuto, poiché il parere di diversi insegnanti è che si tratti di prove interessanti e stimolanti, tutt’altro che nozionistiche.
Anche io la penso così. Mi sono trovato di fronte a delle prove di matematica molto belle, che richiedevano un altissimo livello di ragionamento, di fronte alle quali, forse, anche un adulto colto avrebbe avuto delle difficoltà. Faccio un esempio: si chiedeva la somma di 10 elevato alla 37 con 10 elevato alla 38 (somma di due potenze con la stessa base e diversi esponenti). Ora, per risolvere questo problema è necessario mettere in atto un ragionamento sulle potenze cogliendo e traendo conseguenze dal fatto che i due esponenti sono numeri successivi e quindi…
Bisognerebbe approfondire valutando quanto questo ragionamento sia una vera competenza di cittadinanza o la capacità di utilizzare la formalizzazione matematica rimanendo però in ambito disciplinare.
Giusto, non è auspicabile?
Certo che lo è, ma si tratta di ragionamenti che dovrebbero essere svolti in classe, che richiedono la possibilità di avere un’interlocuzione con l’insegnante, che non possono essere utilizzate come “metro di misura” delle competenze di ragazzi che frequentano professionali e licei, in periferia e nel centro città. La valutazione sarebbe, senza dubbio, minata alla base. Quando si valuta qualcosa bisogna utilizzare uno strumento adatto a quella misurazione. Devo sapere che la corrente non si misura con il metro. Diverso è il caso se quelle prove venissero spedite all’inizio dell’anno nelle scuole e rappresentassero un modello con cui confrontarsi nel processo di apprendimento. Questo lo troverei senza dubbio utile, e un elemento di stimolo importante per i professionisti dell’insegnamento, cioè gli insegnanti.
Passiamo al secondo livello di valutazione.
Lo scopo di questo secondo livello è la valutazione dell’unità scolastica. E questa valutazione è condivisa da tutti gli operatori della scuola, dagli insegnanti al dirigente, agli operatori scolastici.
E qual è l’oggetto di questa valutazione?
E’ l’insieme delle variabili che determinano i risultati dell’apprendimento.
E che c’entrano gli operatori scolastici, cioè i bidelli?
E’ semplice: una scuola in cui funzionano tutti i supporti alla didattica lavora molto meglio e tutti i soggetti che operano nella scuola hanno una funzione educativa. Ridurre il numero di operatori scolastici, ad esempio, non è un fatto puramente economico. Ha delle ricadute sulla qualità della didattica.
Quindi si tratta di una valutazione del funzionamento, non dell’apprendimento…
No, si valutano tutte le variabili legate all’insegnamento/apprendimento: la qualità del curricolo, la qualità delle relazioni umane, e terzo la qualità del contesto ambientale in cui avviene l’insegnamento-apprendimento, che coinvolge l’intero assetto organizzativo dello spazio, del tempo, delle strutture che rappresentano evidentemente il contenitore non neutro entro cui l’insegnante insegna e lo studente apprende.
E chi è che valuta?
La scuola stessa. Una valutazione di questo genere dovrebbe stare dentro il piano dell’offerta formativa: sarebbe giusto che la scuola a partire dalla valutazione della sua unità, si ponesse, e li dichiarasse, degli obiettivi da raggiungere e mettesse in campo dei processi per raggiungerli. La scuola, se ritiene il caso, può dotarsi anche di competenze esterne per supportare la valutazione, ma si tratta di una questione che fa parte del patto che la scuola fa con il territorio di riferimento. In questo caso la valutazione ha uno scopo preciso: migliorare la qualità dell’unità scolastica.
E il terzo livello qual è?
E’ la valutazione di sistema. Questo è ciò che indubbiamente è di responsabilità sovrascolastica, a livello regionale, nazionale, internazionale: si valuta la scuola a livello di sistema.
Rettifico, dire che è questo l’obiettivo dell’Invalsi.
E invece no: perché l’Invalsi mescola questi tre piani. Non si capisce bene fino a che punto sia una valutazione dello studente, delle scuole o del sistema scolastico e sulla base di questa mancata chiarezza non utilizza strumenti coerenti.
Ma come si misura un sistema?
Non sono un esperto del settore, ma per quanto ne so, la prima caratteristica di uno studio di sistema è che tale valutazione avvenga su un campione e non sull’universo.
Perché?
Proprio per evitare di mescolarsi con gli altri livelli di valutazione.
Per esempio le indagini Ocse-Pisa sono a campione?
Esattamente, sì, sono a campione.
Quali sono gli aspetti positivi di un’indagine a campione applicata a un sistema?
Che risulta chiaro lo scopo: sto valutando un sistema, non sto valutando un’unità scolastica, né uno studente. Si tratta di un criterio fondamentale. L’invalsi è anche un istituto che serve ad aiutare le scuole a fornirsi di strumenti, di fornire un aiuto scientifico, per costruire dei sistemi di valutazione. Se l’Invalsi vuole valutare il sistema deve trovare degli strumenti e delle procedure adatti a questo specifico scopo. Valutare insieme l’apprendimento dello studente, il processo di miglioramento di una unità scolastica e l’insieme del sistema, non va bene. Come sempre in Italia si parla delle cose in modo confuso e non si capisce l’obiettivo e la sostanza di ciò di cui si sta discutendo. Si sollevano soltanto polveroni.
Il risultato?
Il risultato è che non ci sarà mai un confronto vero sul tema della valutazione e sarà sempre più difficile attuare interventi di valutazione coerenti. Il problema della scuola italiana non è nella mancanza di una valutazione come fatto esterno e risolutivo. Quanto piuttosto nell’avvio di un processo di innovazione che migliori i risultati e che preveda anche le necessarie e adeguate forme di valutazione.
E come si fa?
Si fa operando sulle variabili che sono coerenti con il risultato, che riguardano curricolo, relazione e contesto. La valutazione, in ognuno dei tre livelli che abbiamo descritto, può e deve svolgere un ruolo nello stimolo alla condivisione al raggiungimento di un miglioramento.
Lei insiste tanto sulla condivisione, non capisco se è un atteggiamento “buonista”, un auspicio perché le cose vadano meglio, oppure un preciso elemento affinché la valutazione funzioni.
Lo dico scientificamente: stiamo misurando un oggetto sociale, non stiamo misurando un dato fisico. Stiamo misurando delle cose che sono soggetto di valutazione e allo stesso tempo attori di miglioramento. Se una scuola bara non è in un processo di miglioramento. Perché gli studenti chiedono di copiare i test e gli insegnanti glielo permettono? Perché evidentemente vivono quello strumento come un nemico e non come una cosa utile al proprio apprendimento.
E qual è la soluzione?
La soluzione è che bisogna tornare a mettere in atto un miglioramento della scuola che riparta dal processo di insegnamento e di apprendimento in classe, il che vuol dire che ovviamente ci sono dei soggetti che sono competenti e responsabili di questo miglioramento: dagli insegnanti, alla struttura della singola scuola, al sistema nazionale. Ma serve anche un’altra cultura della scuola che responsabilizzi gli studenti, le famiglie e la società. Questo processo è indubbiamente interrotto: non c’è investimento, ma soprattutto non c’è il riconoscimento che questo è il problema della scuola. In questo quadro di problemi, io credo che chi vuole riattivare questo processo di innovazione debba pretendere che venga messa in atto anche la dimensione valutativa nella direzione che dicevo prima, come fatto condiviso e attraverso uno strumento chiaro, specifico per raggiungere lo scopo ai vari livelli. Non ci sono amici o nemici della valutazione. Metterla così significa ridurre di nuovo tutto a comportamenti, manichei, ideologici e infruttuosi. Si tratta di superare un livello di banalizzazione, superficialità e banalizzazione che è in atto. Chiaro che anche io, in questa chiacchierata, ho banalizzato, schematizzato. Ci sarebbe da discutere giornate intere, riempire di contenuti queste indicazioni di lavoro. E, forse, cogliere un segnale molto triste che ci viene dalle proteste in atto.
Quale?
Che molti insegnanti vivono con fastidio la valutazione, come un esercizio di potere, perché in effetti, oggi, la valutazione all’interno della scuola è un esercizio di potere. Raramente si tratta di uno strumento che viene inserito all’interno del processo di insegnamento-apprendimento. Tutto viene ridotto al voto, in una contrapposizione studente-docente. Raramente, ripeto, la valutazione viene riconosciuta come una prova che serve sia al docente che allo studente per capire a che punto si è arrivati e come occorre andare avanti. Questa sì sarebbe un’altra scuola.
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